Franco Battiato

di Giovanni Petta

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Ne approfitto per scrivere di lui mentre spero che le notizie – di cui non riesco a trovare conferma o smentita – siano false.

Scrivo ora per inviare un po’ di quella energia – niente miracoli, come dice Gurdjeff -, nella speranza che serva a qualcosa.

«Cosa vuoi che sia una canzone? Che importanza può avere nel cosmo? – diceva in una intervista recente – Una canzone diventa importante solo se aiuta qualcuno a diventare più degno e più uomo».

Io non sono certo diventato più degno e più uomo. Ma è sicuro che, da quando ho conosciuto Battiato, c’è in me questo tentativo.

Accadde nel 1981, avevo quindici anni e mezzo, quando uscì «La voce del padrone», il primo album italiano a superare il milione di copie vendute.

Per chi non lo ricorda, è il disco di sette canzoni strepitose: «Summer on a solitary beach», «Bandiera bianca», «Gli uccelli», «Cuccurucucù», «Segnali di vita», «Sentimiento nuevo» e quel «Centro di gravità permanente» che si scolpì nella mia mente e che ancora riaffora.

Quanto fu importante, per un adolescente, sentire dallo stereo parole come quelle: «Cerco un centro di gravità permanente che non mi faccia mai cambiare idea sulle cose, sulla gente…»

Fu l’ammissione, da parte di un adulto, della necessità di una ricerca in atto che, per me adolescente, doveva essere già giunta a conclusione nelle persone più grandi di me. Mi resi conto – e fu una folgorazione – che anche i miei professori e i miei genitori vivevano nel dubbio. Li osservai, spinto da Battiato, e notai le loro incertezze, le loro difficoltà a trovare un equilibrio. Mi senti rassicurato. Capii e mi convinsi che non ero l’unico idiota dell’universo a non sapere da che parte andare per trovare verità e punti di riferimento.

Quel disco fu importante per tanti altri motivi. Mi rendeva consapevole del fatto che cultura alta e pop potessero convivere. In quel disco c’erano i «figli delle stelle» di Alan Sorrenti e «Minima moralia» di Adorno, c’era Vivaldi e l’uva passa, Beethoven e l’insalata.

Tornai subito indietro e andai a rivedermi tutta la sua discografia precedente: «Patriots» e «L’era del cinghiale bianco» che avevo ascoltato con piacere ma senza troppa attenzione. E, poi, persino le cose più sperimentali di «Fetus» e «Pollution».

Da quel momento divenne un punto di riferimento importante: lo vidi al teatro Verdi di Firenze e al Sistina di Roma, in due concerti indimenticabili. Poi in tante altre occasioni live e ogni volta riportavo a casa energie positive e voglia di cambiamento, di attenzione a me stesso.

Poi ci fu un momento, circa dieci anni dopo, un momento di crisi e sconforto. Erano usciti «Fisiognomica», «Come un cammello in una grondaia» e altri suoi dischi. Li avevo ascoltati ma mi ero perso. Avevo dimenticato la ricerca… vivacchiavo. Accadde che lo vidi in tv per caso, intervistato da Corrado Augias per Babele. Parlava di un libro che aveva cambiato la sua vita, «Frammenti di un insegnamento sconosciuto». Corsi a comprarlo ed entrai in un mondo che mi ha stimolato, sostenuto, confortato continuamente. Ritrovai il «Centro di gravità permanente» di cui Battiato mi aveva parlato dieci anni prima e tante altre cose che per me furono un tesoro impagabile.

Quel libro, letto per la prima volta nel 1992, l’ho poi riletto nel 1996, nel 1997, nel 2002, nel 2012 e nel 2014, trovando ogni volta cose nuove e importanti.

Insomma, spero davvero che non sia vero. Che la malattia di Battiato non sia così grave. E che, se avrà un momento di lucidità, possa sapere che c’è qualcuno (ma chissà qanti altri!) che, grazie alla sua opera, non è ancora diventato «più degno e più uomo» ma ci sta provando da quasi quarant’anni.