di Giovanni Petta
Duecento giorni e quattro diari fitti
più di tremila foto e la bellezza
che a rivederla sembra senza senso
difficile da dire che c’è stata
Seimila versi e solo tre canzoni
biglietti, auguri, liste della spesa
brochure dei viaggi fatti o programmati
per un futuro che poi non è arrivato
Duecento giorni pieni di rancore
pixel malati che vanno cancellati
distrutti per distruggere il veleno
che uccide, mentre osservo il tuo salire
in macchine che avevo immaginato
Unghie ingiallite, pelle, e poi l’odore
da casa di riposo, da badanti
che abbracciano, pagate, ogni respiro
le gambe che si muovono incrostate
frasi ridotte e grigio dentro gli occhi
risate programmate a sostenere
il gioco, la commedia della vita
e l’energia che tenga tutto in piedi
Lenzuola putrefatte dalla notte
stanze d’albergo senza alcuna luce
cena d’amici usati e sopportati
e vecchi e poi tristezza del creato
Finzioni di incantevoli serate
la pesantezza di quando vanno via
gli attori scelti apposta e le comparse
l’umanità, insomma, che vive in allegria
Lo sforzo di tenere alto lo sguardo
con gli occhi che non si alzano da terra
schiacciati sotto il peso dell’oltraggio
la dignità del corpo data via
Non ci sarà uno sguardo o una carezza
che non contenga il tempo abbandonato
le notti del tuo cuore sul mio petto
lo sguardo nello sguardo sprofondato
Mi troverai persino dentro il miele
di alberghi da sfrafighi vista-mare,
a colazione, sarò sull’orizzonte,
nel punto più lontano, tra le onde,
dove s’imbriglia la luce e il movimento
nel bianco del sentire immacolato
Spruzzo dell’acqua appena consistente
un piccolo rigurgito del niente